Noi migranti italiani facciamo così
Noi migranti italiani facciamo così: saliamo sulle carrette del mare, attraversiamo l’Oceano e, se siamo fortunati, raggiungiamo Ellis Island o le coste del Sud America. In alcuni viaggi molti di noi muoiono, dicono oltre il 20%; spesso veniamo sistemati in coperta, esposti al freddo e alla pioggia o nelle stive prive d’aria e di servizi igienici.
Una volta sbarcati veniamo sottoposti a umilianti attese e a estenuanti visite mediche; i nostri nomi vengono storpiati dai poliziotti che conoscono solo la lingua inglese. Ci dicono che puzziamo e che portiamo malattie.
Noi facciamo i lavori più umili per sopravvivere, veniamo sottopagati e viviamo in baracche, in un sola stanza dormiamo e prepariamo da mangiare in sei persone. Lavoriamo nelle fabbriche di apparecchi elettrici o di giocattoli, facciamo gli operai e i manovali, i camerieri o i cuochi, contribuiamo a mantenere alto il PIL del Paese che ci ospita.
Quando usciamo per svagarci, gli unici locali che possiamo frequentare sono quelli di infimo ordine; gli abitanti del posto ci provocano e ci insultano, molti di noi infatti vanno in giro con il coltello in tasca e cedono subito alle provocazioni, partecipando a risse e liti.
Alcuni di noi non sono riusciti a ottenere il permesso di soggiorno o a rinnovarlo; molti dei nostri figli, ad esempio, sono rimasti nella condizione di “clandestini”, per questo siamo costretti a nasconderli. Abbiamo detto loro di non ridere, di non urlare, di non piangere e, se bussano alla porta, di nascondersi rapidamente sotto i letti o dentro gli armadi, e di scappare se sentono le sirene dell’ambulanza o della polizia. Se si feriscono, non possiamo portarli dal medico, ma dobbiamo fare tutto da soli.
Perché abbiamo lasciato l’Italia? Rispondo con le parole che, una volta, un mio concittadino disse a un nostro Ministro che gli pose la stessa domanda: «Cosa intende per nazione, signor Ministro? Una massa di infelici? Piantiamo grano, ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante, voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria. Ma è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro?»
Noi migranti italiani facciamo così: raggiungiamo per mare o per terra Paesi quali Stati Uniti, Canada, Argentina, Germania, Svizzera, Brasile, Australia, Francia, Inghilterra. Tra il 1861 e il 1985 abbiamo lasciato l’Italia, senza farvi più ritorno, in 18.725.000.
Mi auguro solo una cosa: che le future generazioni ricorderanno chi siamo stati, che non chiuderanno mai i porti o le frontiere, che non faranno subire agli stranieri ciò che noi abbiamo subito: discriminazioni, umiliazioni, fame, miseria, razzismo, degrado, torture, morte.
Perché l’Italia non è come vogliono descriverla: non è un popolo di mafiosi, analfabeti, incompetenti, ignoranti, rozzi, maleducati, violenti, superficiali e senza umanità. No, noi non siamo questo, noi siamo ben altro: noi siamo l’Europa di De Gasperi, siamo la resistenza di Pertini, siamo l’estro di Da Vinci, siamo l’umanità di Berlinguer, siamo le idee di Falcone e Borsellino, siamo il pennello di Michelangelo, siamo l’onestà di Moro, siamo le melodie di Vivaldi, siamo le parole di De Andrè, siamo i versi di Leopardi, siamo il lavoro di Olivetti, siamo il sorriso di Papa Luciani, e potrei continuare all’infinito.
E se qualcuno proverà a convincervi di essere solo dei buonisti e non dei buoni, screditando i vostri valori per legittimare il proprio cinismo, non dategli retta, ricordatevi di noi, della nostra sofferenza, della nostra speranza, del nostro sogno di una vita più dignitosa. Ricordatevi di chi ha lottato perché smettessimo di soffrire. Non dimenticate chi siamo, non dimenticate chi siete.
Un migrante italiano qualsiasi.
(Tratto da racconti veri)
di Virginia Avveduto
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