Sulla mia pelle: la passione di Stefano Cucchi

Portare sul grande schermo (e pure sul “piccolo” della piattaforma Netflix, che ha prodotto il film) la morte di Stefano Cucchi era un atto dovuto e necessario.
“Dovuto” per rispetto alla sua memoria, va ricordato infatti che la sorella Ilaria lo ha voluto con tutte le sue forze; “necessario” perché racconti di questo tipo, oggi, dato il momento storico-politico che stiamo vivendo, sono fondamentali.
L’opera di Alessio Cremonini non spicca da un punto di vista artistico, Sulla mia pelle non è un grande film, non è grande cinema. Ha la qualità di un’ottima fiction italiana, con regia, sceneggiatura e fotografia che non restano di certo nella memoria; svetta però la magistrale interpretazione di Alessandro Borghi, credibilissimo e struggente, che ha messo anima e (soprattutto) corpo nel vestire i panni lerci del magrissimo protagonista, nei giorni del suo martirio.
Un’interpretazione, questa sì, indelebile e completamente al servizio della storia narrata, che è tanto semplice quanto potente: i sette giorni che dal momento dell’arresto conducono Stefano Cucchi alla morte.
Come in una moderna Passione di Cristo, senza miracoli o conversioni, assistiamo alla passione di un cristo drogato e “solo” che non trova spazio tra le righe dei Vangeli ma negli atti giudiziari di un processo senza fine.
Sbirciando attoniti dentro gli uffici, le caserme, le celle e le camere d’ospedale di una Roma notturna e fredda, scoviamo un Paese cupo, squarciato da luci al neon, rumori di passi lungo lunghi corridoi e porte che si chiudono. Oltre le quali non ci è dato vedere, ma solo immaginare. L’orrore.
Sulla mia pelle è una grande storia, toccante, cruda, viscerale. È il racconto di un’umanità distrutta dalla disumanità, generata dalla degenerazione dello Stato. Uno Stato violento, talmente burocratizzato da divenire sordo e omertoso.
Cantava Fabrizio De Andrè: “Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino, non avevano leggi per punire un blasfemo; non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte”.
Oggi questi versi di denuncia, di mònito e di ricordo, sono dedicati a Stefano e ai 172 che nel solo 2009, in Italia, sono deceduti nel buio di una cella. Ma sono anche dedicati a noi, che ci lasciamo alle spalle, arrabbiati ma in assoluto silenzio, il buio della sala.
di Francesco Giamblanco
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