Che lavoro fai? Questo non è un Paese per te
E fai il social media manager, il web designer, il videomaker e il blogger.
Fai il fotografo, il programmatore, il grafico, lo chef, l’artista e lo scrittore. Perché lo fai?
E fai il filosofo, il copyrighter, il giornalista, il ballerino e il musicista.
Qualche volta fai l’architetto o il professore, lo psicologo o il ricercatore.
Perché lo fai?
E soprattutto: perché lo fai gratis, sottopagato, e per chi di continuo ti ha sminuito?
Perché non te ne vai… all’estero?
Ebbene, se fossi un membro de Lo Stato Sociale, canterei proprio queste righe e suggerirei al mio interlocutore creativo, intellettuale, cervellone, informatico, professionista: Perché non te ne vai all’estero? Con il cliente che paga e ti dice “Grazie, sei stato davvero d’aiuto”.
E invece rimani in Italia, a sentirti dire, ogni volta, “Puoi farmi questo favore? Tanto bastano 2 click” – “Faresti un video per la nostra azienda? Ti paghiamo in visibilità” – “Potresti farmi un progettino (gratis)? Basta un minuto e non ti chiedo altro” – “Nella vita ho sbagliato tutto, avrei dovuto fare lo chef! Sapessi quanto sono bravo a fare la carbonara!”- “Sei psicologo? Beh, io preferisco rivolgermi a uno psichiatra, che è un medico”, “Sei musicista? E di lavoro cosa fai?” – “Ma davvero pretendi 50 euro per questa cosa? Ma allora faccio da me, tanto che ci vuole, basta un attimo!”.
Da sempre, per sopravvivere, l’essere umano ha cacciato, coltivato, allevato, raccolto, costruito, inventato, combattuto, così da procurarsi del cibo e una dimora.
Però, a differenza del leone che insegue la gazzella su e giù per la savana, l’uomo è un essere pensante e intelligente, e ha progettato, col tempo, un sistema complesso di concetti e regole che hanno elevato il lavoro a molto di più.
Per cui il lavoro, oggi, non è solo strumento di risposta alla fame o al bisogno di avere un tetto sulla testa, ma è anche mezzo di espressione delle proprie passioni e capacità, del proprio percorso di studi e acquisizione di competenze.
Eppure, nella convinzione comune, esistono “lavori seri” e “lavoretti che tutti possono fare”; perché in molti tendono ancora a dare più valore allo sforzo fisico che alla concentrazione mentale, al sudore della fronte che al numero di neuroni impiegati, al tempo della realizzazione più che al tempo della progettazione.
E non è di certo un problema recente. Circa un secolo fa, Antonio Gramsci, per rivendicare l’importanza del lavoro intellettuale, pronunciava queste parole: “Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.”
In un contesto politico in cui tutto il lavoro ha perso gran parte del suo valore (in termini di aumento del tasso di disoccupazione, di abbassamento delle tutele sindacali e delle retribuzioni), bisogna ri-partire nel rispetto di ogni singolo individuo che si mette in gioco, producendo qualità, invenzione, arte, servizi; soprattutto in vista di un futuro (sempre più prossimo) in cui i lavori di routine, manuali e ripetitivi verranno sostituiti dai computer (pensiamo ad esempio alle case costruite da stampanti in 3d), è necessario avere più coraggio e investire sull’ingegno, sulla progettazione, sulla ricerca e sulla creatività.
Nell’epoca della comunicazione, dell’intelligenza artificiale, dell’informazione veloce, dei social network, dell’avanzamento delle neuroscienze e dell’aumento della complessità sociale, la cultura, l’arte, il lavoro creativo e intellettuale dovrebbero avere la stessa dignità sociale delle professioni storicamente radicate nella stima collettiva.
Perché una cosa è certa: ci sono abilità umane, quali l’empatia, la capacità di negoziazione, la fantasia, il talento, l’immaginazione, che l’intelligenza artificiale difficilmente potrà riprodurre.
Virginia Avveduto
e Francesco Giamblanco
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