Tre anni senza Giulio Regeni: il ricordo più intimo

Sono passati tre anni dal giorno in cui al Cairo fu rapito Giulio Regeni, era il 25 gennaio 2016. Come è ormai noto, Giulio era un dottorando italiano dell’Università di Cambridge, da alcuni mesi nella capitale egiziana per svolgere una ricerca di diritto del lavoro e sindacale. Il suo corpo fu ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo.
Oggi sappiamo che Giulio fu oggetto di una stringente attività di spionaggio da parte degli apparati del regime egiziano alla vigilia del quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir; attività che fu alimentata dal tradimento di chi Giulio si fidava, l’allora leader del sindacato degli ambulanti, Mohammed Abdallah, pronto a venderlo nella sua veste di informatore di polizia e Servizi. Che a consegnare a Giulio la patente di “spia”, quale non era, per conto dei Servizi britannici, fu la “colpa” del suo lavoro di ricerca. Che il regime egiziano per tutto questo tempo ha depistato le indagini, arrivando a concepire e consumare la macabra messa in scena della morte di cinque innocenti da offrire all’Italia come responsabili della morte di Giulio.
Sono stati tre anni lunghi, di imbarazzante inerzia da parte delle istituzioni e dei responsabili delle indagini, ma anche due anni colmi di affetto, di battaglie e di manifestazioni per far sentire la propria voce, che hanno coinvolto migliaia di semplici cittadini ma anche tanti giornalisti e associazioni (su tutte Amnesty International).
In particolare, due persone hanno portato avanti con forza, intelligenza, garbo e immensa umanità la battaglia di verità e giustizia per la morte di Giulio: i sui genitori, Claudio e Paola Regeni.
Ed è alle dichiarazioni di quest’ultima, rilasciate durante una conferenza stampa del marzo 2016, che voglio affidare il racconto più vero e intimo di Giulio, del dolore della sua scomparsa e di quanto sia necessario rendergli Giustizia.
“La morte di Giulio non è un caso isolato. Non è morbillo, non è varicella. La parte amica dell’Egitto ci ha detto che l’hanno torturato e ucciso come un egiziano. Forse non saranno piaciute le sue idee. E forse era dai tempi del nazifascismo che un italiano non moriva dopo esser stato sottoposto alle torture. Ma Giulio non era in guerra, non era in montagna come i partigiani, che hanno tutto il mio rispetto. Era lì per fare ricerca. Eppure lo hanno torturato”.
L’ultima foto che abbiamo di Giulio è del 15 gennaio, il giorno del suo compleanno, quella in cui lui ha il maglione verde e la camicia rossa. Non si vede, ma davanti a lui c’è un piatto di pesce e intorno gli amici, perché Giulio amava divertirsi. Il suo era un viso sorridente, con uno sguardo aperto. E’ un’immagine felice.
Poi c’è un’altra immagine. Quella che, con dolore, io e Claudio cerchiamo di sovrapporre a quella in cui era felice, quella all’obitorio. L’Egitto ci ha restituito un volto completamente diverso. Al posto di quel viso solare e aperto c’è un viso piccolo piccolo piccolo, non vi dico cosa gli hanno fatto. Su quel viso ho visto tutto il male del mondo e mi sono chiesta perché tutto il male del mondo si sia riversato su di lui”.
All’obitorio, l’unica cosa che ho ritrovato di quel suo viso felice è il naso. Lo ho riconosciuto soltanto dalla punta del naso.
Io che piango sentendo le canzoni romantiche, i funerali e pure per i disegni dei bambini, finora ho pianto pochissimo. Per Giulio non riesco a piangere, ho un blocco totale e forse riuscirò a sbloccarmi solo quando riuscirò a capire cosa è successo a Giulio.
La cosa che mi fa più male è pensare a quando lui avrà cercato in tutti i modi di far capire chi era, parlando in arabo, in inglese, in italiano, in spagnolo, in tedesco, magari anche nel dialetto del Cairo, e niente è successo. Poi mi capita di vedere i suoi occhi, quei suoi occhi felici, che dicono ‘ma cosa sta succedendo, non può accadere a me‘. E ancora, lo immagino quando, alla fine, capisce che quella porta non si aprirà più, perché lui aveva tutte le chiavi cognitive, linguistiche e storiche per capire cosa stava accadendo”.
In questi mesi ci sono stati momenti di rabbia, ma soprattutto di gran dispiacere: per non avere più Giulio. Che è una cosa che ha cambiato la vita a noi, ma anche a sua sorella, e a Fiumicello, e a molti altri. Una cosa così cambia la vita a tutti, sapete?”
di Francesco Giamblanco
(fonte: Repubblica.it e Rainews.it – illustrazione in copertina: Mauro Biani)
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