La normalizzazione del male: se i cattivi non ci sono più

La normalizzazione del male: se i cattivi non ci sono più

Ursula, Malefica, Jafar, Crudelia, Putin. I cattivi non ci sono più. Sono solo lontani ricordi.

Anche la Disney persegue da tempo la via della riabilitazione o della cancellazione dei diabolici antagonisti che da sempre hanno giustificato lo svolgersi della storia fino all’immancabile lieto fine.

Non ci sono più i buoni e i cattivi perché il bene e il male sono concetti superati, tramandati nelle leggende, nelle superstizioni nonché nelle religioni.

Oggi il buon senso induce a scavare e capire le ragioni di tutti i personaggi, a conoscerne il passato, coi suoi traumi e i conseguenti disturbi che portano a comportamenti antisociali e violenti, tanto da indurre spesso lo spettatore alla compassione.

Sempre più spesso emerge addirittura che il nemico non è l’altro, ma è qualcosa che si nasconde dentro il protagonista: le sue emozioni (paura, ansia, tristezza), ad esempio.

Così è tutto più etico, politicamente corretto, didattico.

Un “io” che combatte contro i propri “demoni”, contemporaneo perché lontano anni luce dall’anacronistico dualismo Paradiso-Inferno.

Eppure un rischio c’è.

In sala ne risentono la trama e lo svolgersi dell’azione, il ritmo narrativo inciampa, la presa emotiva scolorisce, la mitologia dei personaggi sparisce (pensate all’immagine iconica di Grimilde riflessa nello specchio o di Scar in cima alla rupe): lo spettatore non sa più per chi parteggiare o contro chi indignarsi.

Nella vita vera, invece, per affrontare il “male”, che non giunge mai con l’offerta di una mela avvelenata ma molto spesso sotto forma di un attentato terroristico o di un missile contro un ospedale, non basta fermarsi e con voce pacata suggerire al “cattivo” il nome di un buon analista.

La vita vera, a differenza di un cartone animato in corsa per l’Oscar, richiede scelte tanto complesse quanto tempestive, per le quali purtroppo spesso non è concesso il tempo di approfondire le ragioni di tutti, indietreggiando a passi felpati lungo la linea del tempo.

L’emergenza è per definizione una “circostanza imprevista e attuale” che richiede di agire hic et nunc per ridurre al minimo le più nefaste conseguenze future.

L’emergenza, e la sua immediata risoluzione, richiedono inevitabilmente che si prenda posizione in maniera netta, univoca, proprio per fare delle scelte precise: ad esempio, di fronte al dualismo aggressore-aggredito è necessario fermare l’aggressore e/o aiutare l’aggredito a difendersi.

La storia insegna che l’analisi approfondita va fatta sempre: per evitare l’insorgere del conflitto, per trovare la soluzione diplomatica e per ricostruire gli eventi, in termini processuali e storici; ma questo non vuol dire che nel frattempo si debba restare inermi a guardare o a perdersi nel mare delle relativizzazioni.

Pensate a Vladimir Putin e alla sua infanzia difficile, da bambino cresciuto senza amore tra le fila del KGB. Pensate se avessimo concesso a Hitler tutte le giustificazioni derivanti dai molteplici disturbi psichici da cui era notoriamente affetto. Pensate se cominciassimo ad ammettere le “ragioni” più profonde degli stupratori o dei pedofili.

E pensate addirittura se oltre alla comprensione delle ragioni dei carnefici cominciassimo a mettere in dubbio quelle delle vittime: “beh però la Nato, beh però Zelensky, beh però gli ebrei, beh però lei con quella gonna l’ha provocato”.

Forse sto estremizzando un po’, per puro spirito esplicativo, ma il rischio che si imbocchi questa via (senza uscita o di difficile manovra) è molto concreto: in questi giorni di guerra, molti occidentali, direttamente dal proprio divano o dai salotti televisivi (al riparo dai missili russi), nel sacrosanto tentativo di sottolineare la complessità della situazione, elargiscono commenti, opinioni e analisi di ogni tipo. Fra questi, ciò che inizia a però preoccuparmi maggiormente, è la tendenza a giustificare l’invasore e attribuire diverse responsabilità all’aggredito.

In genere, sono d’accordo sul non cedere al pensiero dicotomico (quel bianco/nero che fa tanto vecchia Disney per intenderci); ben vengano le peculiarità e le tante sfumature che sono alla base della comprensione e, di conseguenza, della risoluzione diplomatica del conflitto, unica via per la pace.

Ma, come ampiamente detto, questo non è un film ma vita vera, e la gravità dell’emergenza non solo non concede il tempo di tergiversare, ma deve spingerci celermente a riconoscere, condannare e ostacolare le azioni nocive che provocano distruzione e dolore.

Estremizzando ancora un po’: se durante la II Guerra Mondiale, i partigiani e gli alleati avessero messo in un unico calderone nazisti, fascisti, ebrei e popolazioni invase, attribuendo a ciascuno delle responsabilità, reali o propagandate che fossero, evitando così di schierarsi, molto probabilmente oggi parleremmo tedesco e non avremmo alcuna libertà d’opinione.

Oggi, ora, in questo istante, non riconoscere l’Ucraina come parte lesa, significherebbe voltarsi dall’altra parte, significherebbe negare il proprio aiuto alla vittima di un atto violento, significherebbe normalizzare l’azione dell’aggressore col rischio di indurre l’opinione pubblica verso uno stato di indifferenza, se non addirittura di ostilità verso l’aggredito.

(di Francesco Giamblanco e Virginia Avveduto)

 

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