Direttore o direttrice? Come il linguaggio influenza il pensiero
Immaginate un medico con il camice che suona il pianoforte.
Adesso dimenticate il camice e il pianoforte e soffermatevi sul medico. Scommetto che la maggior parte di voi avrà immaginato un medico uomo e in pochissimi avrete immaginato un medico donna. Eppure se avessi detto medica o medichessa, l’immagine sarebbe stata diversa.
Il linguaggio influenza il pensiero, sono ormai molteplici gli studi scientifici che lo dimostrano.
Ad esempio, alcune ricerche hanno confrontato un campione di bambini inglesi con un campione di bambini Himba dell’Africa e hanno riportato risultati molto interessanti. I bambini Himba, infatti, rispetto a quelli inglesi, avevano maggiori difficoltà nel fare delle distinzioni tra quadrati colorati. Un motivo potrebbe essere che la lingua inglese prevede 11 parole per i colori di base, mentre quella Himba solo 5.
Il linguaggio può influenzare il modo in cui pensiamo o in cui percepiamo l’ambiente circostante, può condizionare le decisioni che prendiamo e il comportamento che adottiamo.
Il linguaggio è espressione di una cultura di un popolo, condiziona anche il nostro modo di percepire il tempo (come dimostrato da studi condotti sulle tribù aborigene) oppure il modo di contare, alcune lingue infatti non hanno parole specifiche per i numeri, e le persone che usano tali lingue hanno difficoltà a tenere il conto delle quantità esatte.
Allo stesso modo, vi sono lingue che utilizzano il genere grammaticale (come l’italiano, il tedesco, lo spagnolo, per citarne alcune), altre, come quella inglese, utilizzano sostantivi neutri.
Dunque, noi italiani abbiamo la vita più difficile rispetto a un madrelingua inglese. Se dovessimo rappresentare simbolicamente il sole con una forma umana, molto probabilmente sceglieremmo quella di un uomo, invece se disegnassi una donna vestita di bianco fluorescente e a forma ricurva, pensereste alla luna. In inglese sono semplicemente the sun and the moon, e basta.
Fin quando si tratta di oggetti o cose, non fa nulla, il problema subentra quando bisogna definire le professioni lavorative.
“Tu chi sei, medica mia pietosa?” scriveva Torquato Tasso ne La Gerusalemme liberata nel 1581. Avete letto bene, già allora si usava il termine “medica” per indicare una donna che esercitava le arti mediche. Se mi permettessi di usarlo oggi, sarei etichettata come “femminista che vuole stravolgere la lingua italiana” (come se tra l’altro “femminista” fosse un insulto, altra cosa incomprensibile). Se per certe professioni non si usa il sostantivo declinato al femminile, e per altre invece esiste “solo” il femminile (al di là delle eccezioni grammaticali) vuol dire che qualcosa non va nella cultura di appartenenza.
Dunque ben vengano la direttrice, la sindaca, la presidente, la rettrice, l’avvocata o avvocatessa, l’ingegnera, la ministra. E non è vero che non esistono nella lingua italiana, semplicemente non sono utilizzate (perché storicamente, per cultura e legge, queste professioni sono sempre state ricoperte dagli uomini). La storia si scrive partendo dalle parole.
@VirginiAvve (account Twitter)
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